Referendum “Trivelle” 2016 – FreeWeed invita a votare Si! il 17 aprile

“Si voterà in un giorno solo, avremo poco tempo per far sapere agli italiani di cosa si tratta; e soprattutto, il Premier Renzi ha inteso sprecare circa 370 milioni di euro di soldi pubblici per fare in modo che gli elettori non si interessino, fondi che si sarebbero invece risparmiati accorpando referendum e primo turno delle prossime amministrative. Un motivo in più per i cittadini per partecipare: non possono essere questi giochetti a indebolire la democrazia”, ha spiegato Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace, che fa parte del comitato “Vota SI, per fermare le trivelle”, a GreenMe.it.

Il Comitato è un vasto schieramento di associazioni e organizzazioni della società civile nato per favorire la vittoria del Sì ed affiancare il comitato “istituzionale”, a cui hanno aderito anche greenMe.it e GreenBiz.it.

Ecco il quesito del Referendum Abrogativo del 17 aprile 2016:

“Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?”

Di recente, la Corte Costituzionale aveva confermato l’ammissibilità del quesito promosso dalla Cassazione.

Le modifiche apportate dalla legge di stabilità alla normativa sulle trivellazioni non solo non sono sufficienti ma non rispondono davvero agli intenti dei promotori.

Per questo motivo, i giudici hanno rimandato alla volontà popolare la decisione.

Tempi ristretti, dunque, per la campagna referendaria con l’inspiegabile (o forse una spiegazione c’è) decisione di non far coincidere il referendum con le amministrative.

“Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto per l’indizione del referendum popolare relativo all’abrogazione della previsione che le attività di coltivazione di idrocarburi relative a provvedimenti concessori già rilasciati in zone di mare entro dodici miglia marine hanno durata pari alla vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale. La consultazione si terrà il 17 aprile 2016è l’annuncio arrivato dal Governo l’11 febbraio.

La decisione suona come una beffa e, chiaramente, ha mandato su tutte le furie le associazioni.

Per Greenpeace, si tratta di un vero e proprio attacco alla democrazia. Secondo l’associazione infatti, la decisione di andare alle urne il 17 aprile non solo riduce drasticamente i tempi per la campagna referendaria, utile a informare correttamente i cittadini, ma brucia oltre 350 milioni di euro di soldi pubblici.

“Quella di Renzi e dei suoi ministri è una decisione “da furbetti”, antidemocratica e scellerata, una truffa pagata coi soldi degli italiani. Il primo ministro sta giocando sporco, svilendo la democrazia a spese di tutti noi. È chiarissima la sua volontà discongiurare il quorum referendario, non importa se così si sprecano centinaia di milioni degli italiani per privilegiare i petrolieri”

sostiene Greenpeace che ha rivolto un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, invitandolo a respingere la data proposta dal governo in nome della democrazia, cosa purtroppo non avvenuta, ed anzi confermata.

Fa notare Legambiente che la decisione di non accorpare il referendum alle amministrative è la dimostrazione che questa consultazione disturba. Ma non solo. Secondo il presidente Rossella Muroni

“sulle trivelle, dinanzi alla Corte costituzionale pendono ancora due conflitti di attribuzione, la cui ammissibilità verrà decisa a breve. Qualora il giudizio della Corte dovesse essere positivo, il referendum potrebbe svolgersi su tre quesiti e non solo su uno. Questo elemento però il Governo non lo ha proprio considerato e adesso si rischia anche il paradosso che gli italiani, dopo il 17 aprile, potrebbero essere nuovamente chiamati a votare, sullo stesso tema, in una terza data, con ulteriore spreco di risorse”.

Per Dante Caserta, vicepresidente del WWF Italia,

“il Governo ha evidentemente così tanta paura di quello che pensano i cittadini italiani che, pur di far mancare il quorum fissato per il referendum, è disposto a buttare via 300 milioni di euro”. Senza contare che “con 300 milioni di euro si potrebbe rendere più sicuro il nostro Paese agendo sul dissesto idrogeologico, si potrebbero disinquinare i nostri fiumi e i tanti tratti di mare oggi non balneabili, si potrebbe potenziare il trasporto pubblico e migliorare la vita e la salute di milioni di pendolari, si potrebbe finanziare il sistema delle aree naturali protette italiane”.

 

Il Referendum Trivelle 2016 è la prima consultazione popolare che si realizza su richieste delle Regioni (Il referendum è stato voluto da 9 Regioni: Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto); affinché l’esito delle votazioni venga considerato valido sarà necessario che almeno il 50% più uno dei cittadini aventi diritto al voto abbia espresso la sua preferenza alle urne.

La presenza del quorum è senza dubbio un punto a favore dei sostenitori del No, che oltre alla possibilità di barrare la casella sulla scheda del Referendum Trivelle hanno anche lo strumento dell’astensionismo per fare in modo che le cose rimangano come sono oggi, ovvero con la possibilità di rinnovare le concessioni agli impianti di estrazione già esistenti (l’avvio di nuove attività entro le 12 miglia dalle coste è già vietato dalla legge) fino all’esaurimento dei giacimenti.

Prima di vedere le ragioni della votazione, bisogna fare un paio di precisazioni riguardo al quesito; innanzi tutto bisogna precisare che entro le 12 miglia dalla costa esiste già un divieto per nuove attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio: questo significa che il referendum Trivelle riguarda solo gli impianti che già esistono.

L’esito della consultazione popolare coinvolge 21 concessioni: la norma attualmente prevede che queste abbiano una durata base di 30 anni, prorogabile una prima volta per 10 anni e altre due volte per 5 anni prima di poter essere rinnovata fino all’esaurimento del giacimento.

Se vince il Sì l’ultimo rinnovo non potrà più essere concesso.

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LE RAGIONI DEL “SI” AL REFERENDUM

GreenPeace suggerisce 6 ragioni per presentarsi alle urne e votare Si, e noi le riportiamo di seguito:

1. Con il voto, difendiamo il nostro diritto di scegliere. Ora, come in qualsiasi competizione elettorale, con il voto manifestiamo una nostra volontà. È un diritto sacrosanto e andare a votare significa anche scegliere di difenderlo.

2. Una perdita di petrolio nei nostri mari sarebbe sicuramente un disastro! Anche con trivelle offshore, non si può escludere un incidente. Pensate cosa potrebbe accadere in un mare chiuso come il Mediterraneo, quali gravi conseguenze e quali danni irreversibili.

3. Mettiamo in pericolo il mare per un pugno di barili. Nel caso si continuasse sul percorso trivelle, si estrarrebbe poco petrolio e nel contempo si metterebbero in pericolo le nostre coste, la fauna, il turismo, la pesca sostenibile e le prime vittime innocenti potrebbero essere delfini, capodogli, tartarughe, gabbiani e i pesci che popolano i nostri mari. Difendiamoli!

4. Ci guadagnano solo i petrolieri: per estrarre petrolio le compagnie devono versare le cosiddette royalties e sappiate che per trivellare i mari italiani si pagano le royalties più basse al mondo: il 7% del valore di quanto si estrae.

5. La ricchezza del nostro Paese non è il petrolio! Ci vuole tanto a capire che un Paese così bello come il nostro potrebbe campare sul turismo, sulla sua cultura, sulla sua enogastronomia, sulla sua storia?

6. Le trivelle non sono una soluzione ai nostri problemi energetici: bucare i fondali non significherà dissolvere la nostra dipendenza energetica dall’estero. Come ammette anche il governo, le riserve certe di petrolio nei mari italiani equivalgono a 7-8 settimane di consumi nazionali e potremmo estrarre gas per soddisfare i consumi di 6 mesi.

Greenpeace ha anche diffuso le statistiche elaborate dall’Ispra che dimostrano che tra il 2012 e il 2014 in alcuni degli impianti attualmente in funzione in Italia siano stati superati i livelli indicati dalla legge per gli agenti inquinanti nel corso della normale amministrazione; non si tratta di dati eclatanti, infatti anche gli stessi promotori del Sì ribadiscono che l’inquinamento non è la priorità del referendum: la vera ragione è politica, ovvero la voglia di dare al Governo un segnale forte per dire basta allo sfruttamento di combustibili fossili per puntare in modo concreto sulle fonti di energia alternative.

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Anche la Cia-Agricoltori Italiani ha aderito al Comitato nazionale per il “Si” al prossimo quesito referendario; gli agricoltori, infatti, rappresentano la “risposta verde” a quel petrolio nero che imbratta il nostro presente e il futuro dei nostri figli.

“Questo Paese deve credere e quindi investire nel settore primario, non certo favorire l’esercizio di trivellazioni in mare e in terra per estrarre risorse energetiche fossili che tendono comunque all’esaurimento. Proseguire su questa strada è un non senso, tanto più nel nostro Paese, dove i margini di crescita e sviluppo dell’agricoltura e delle attività connesse sono enormi.

Agricoltura non è solo vino, olio, ortofrutta, allevamenti di eccellenza ma anche paesaggio, sostenibilità ambientale ed energia. Oggi l’agricoltura italiana ha già conseguito notevoli risultati per l’autosufficienza energetica da rinnovabili, ma molto ancora resta da fare: Parliamo di energia ricavata dal legno, dallo scarto delle coltivazioni, dal sole, dai residui organici degli animali, assorbimenti attivi di Co2 da suoli e da foreste. Con le giuste politiche di sostegno ed incentivi alla produzione di energia verde si può aumentare notevolmente il livello di produzione, rendendola disponibile per i cittadini. E questo è solo un aspetto di un più ampio raggio di convenienze nel coltivare più “green”.

Si tratta di una tematica di altissima rilevanza, per migliorare la qualità della vita di tutti gli italiani, rispettando l’ambiente naturale con una visione lungimirante. E’ necessario e doveroso, quindi, recarsi al seggio per il referendum ed è fondamentale votare “Si”.”

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COSA DICE LA LEGGE IN VIGORE SULLA TUTELA AMBIENTALE

Il «Codice dell’Ambiente» ovvero il d.lgs. n. 152/2006 (T.U. ambiente), all’articolo 6 recita:

«Ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni dell’Unione europea e internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonchè di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare, di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge 9 gennaio 1991, n. 9. Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette».

Ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, si decideva dunque che entro le 12 miglia marittime di distanza dalle coste italiane non sarebbe più stato possibile svolgere alcuna attività relativa alla ricerca o all’estrazione d’idrocarburi, con una significativa eccezione: gli impianti già esistenti potevano continuare ad operare in deroga alla legge e in regime di proroga fino all’esaurimento dei giacimenti.

«Ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» si decideva in pratica di lasciare tutto come stava, poco importava se lasciare attive le piattaforme esistenti entro le 12 miglia fosse andato in direzione contraria rispetto a qualsiasi tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ai quali procurano e hanno procurato danni da decenni, perché non esiste attività estrattiva di questo tipo che non procuri l’inquinamento dell’ambiente contiguo alle piattaforme.

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ANALISI DEI DATI: LE MOTIVAZIONI (?) DEL NO SMENTITE DAI DATI REALI

Perché si dovrebbe votare No? Il comitato “Ottimisti e razionali”, afferma che proseguendo con l’estrazione offshore di petrolio e gas si limita l’inquinamento (una teoria abbastanza strampalata, in quanto si sottointende in realtà che si “mantengono i finanziamenti (che loro ricevono dalle società private) per fare operazioni di salute ambientale” NDR): inoltre continua affermando che producendo “in casa” una parte delle risorse che utilizza, l’Italia negli ultimi anni ha evitato che nei suoi porti transitasse un numero elevato di petroliere, situazione complessa però da dimostrare , guardando i dati che indicano che comunque il Paese si rifornisce all’estero per la maggior parte della fornitura del gas e petrolio.

Analizziamo quindi i DATI REALI, e non quelli usati dal “comitato del No” (volutamente minuscolo, NDR) o dal Governo (da Matteo Renzi e perfino dallo stesso Gianluca Galletti, Ministro dell’Ambiente, che afferma: “il petrolio andrebbe abbandonato per spostarsi verso uno sviluppo sostenibile, ma al momento l’economia al 90% va avanti con il petrolio e se non si trivella in Italia bisognerà andare a prendere il petrolio altrove.” , lasciando intendere, come il “comitato del No”, che ORA NON SI PRENDE DALL’ESTERO, o che se ne prende meno di quello che estraiamo, o che addirittura le nostre produzioni siano sufficienti per il fabbisogno nazionale.

Bene, guardando i dati REALI, si nota subito come quelli utilizzati dal “comitato del No” siano completamente errati:

IL GAS NATURALE – I dati sono quelli forniti dal Ministero dello Sviluppo Economico, relativi al 2013.

Quell’anno l’Italia importava in totale 61966 miliardi di standard metri cubi a 38,1 MJ/m3 di gas naturale. Per la stragrande maggioranza provenienti dalla Russia: il 45,3% del totale. Il 20,2% invece, arrivava dall’Algeria e il 9,2% dalla Libia. Poi gli altri Paesi.

La quantità di gas importato comunque, è GIA’ di PARECCHIO SUPERIORE a quello prodotto in casa nostra. Stando ai dati di gennaio 2013 infatti, relativi al 2012, a fronte dei 6260 milioni di metri cubi presi dall’estero, ne venivano prodotti in patria solo 682. ( CIRCA il 10 % )

GRAFICO. Le importazioni di Gas.

IL PETROLIO – Per quanto riguarda il Petrolio invece, i dati sono quelli forniti da Unione Petrolifera e sono relativi al 2014.

Sul totale delle importazioni di greggio (49267 migliaia di tonnellate), il 24,3% proviene dall’Africa. Nello specifico, il 6,7% dalla Libia, il 3,4% dall’Angola, il 2,8% dalla Nigeria.

Il 41,8% del greggio invece, arriva dai Paesi dell’ex-Urss, in particolare un buon 17% dalla Russia.

Il 23,6% infine, è importato dal Medioriente, nel dettaglio: l’11% dall’Arabia Saudita e l’11,6% dall’Iran.

GRAFICO. Importazioni di petrolio Greggio.

 

Una situazione, quella del petrolio e del gas naturale, quindi, che vede l’Italia piuttosto dipendente dalle importazioni internazionali, già da ORA, e che fino ad ORA IMPORTAVA “ENERGIA PRIMA” DALL’ESTERO IN QUANTITA’ ENORMI, UTILI AL FABBISOGNO NAZIONALE, IMPOSSIBILE DA COPRIRE CON IL PETROLIO E GAS ESTRATTI NEL NOSTRO PAESE, e cosi necessariamente continuerà a fare, fino a che passeremo completamente alle Rinnovabili.

Ecco altri dati, inequivocabili:

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Dai dati esposti dal Ministero dello Sviluppo Economico nel Bilancio Energetico Nazionale del 2014 si nota il rapporto tra produzione nazionale ed importazione dall’estero: per il petrolio a fronte di 5,764 prodotto ne viene importato 71,770 , ossia l’importazione è circa 14 volte la produzione interna, mentre per il gas a fronte di 5,855 prodotto ne viene importato 45,665 , ossia l’importazione è circa 9 volte la produzione interna. (Forse questo dato potrebbe interessare direttamente il “comitato del No”, che sostiene che grazie alle piattaforme interessate stiano limitando il traffico marittimo e l’importazione, NDR)

Nel 2014, rispetto al 2013, il CONSUMO TOTALE INTERNO LORDO è comunque DIMINUITO, confermato che IN REALTA’ il METODO MIGLIORE per una buona ECONOMIA sia appunto il CONTROLLO DEI CONSUMI, ed una RIDUZIONE degli stessi, a prescindere dalla fonte di energia utilizzata.

“Il 2014 registra un consumo di gas naturale pari a 61,9 miliardi di metri cubi (valore simile a quello registrato nel 1998), con una contrazione di circa 8,1 miliardi di metri cubi (-11,6%) rispetto ai 70,1 miliardi di metri cubi del 2013, a seguito però di una contrazione nei consumi del settore termoelettrico (-14,0%) e del settore residenziale e terziario (-17,0%). La differenza è per il 65% circa dovuta ai minori consumi civili per riscaldamento (-5,3 miliardi di metri cubi) e per il restante 35% al minor consumo di gas termoelettrico (-2,9 miliardi di metri cubi). Il 2014 è infatti stato caratterizzato da una climatica invernale particolarmente mite rispetto alla temperatura normale (ca – 20%) ed una climatica estiva fresca e piovosa. Questi fattori climatici hanno contribuito a contenere i consumi di gas per riscaldamento e per generazione termoelettrica.”

Rapporto Ministero dello Sviluppo Economico – 2014

 

Nonostante “un contesto economico caratterizzato da un PIL ancora in contrazione”, come sottolinea il rapporto del Ministero, e le condizioni climatiche favorevoli, entrambi fattori che hanno contribuito ad UNA DIMINUZIONE DEL CONSUMO TOTALE INTERNO LORDO, ed appunto la diminuzione dei consumi conseguente, che hanno abbassato il valore necessario a coprire il fabbisogno energetico nazionale, sono ugualmente  diminuite le produzioni interne di PETROLIO E GAS (dato interessante) insieme alle importazioni, al posto di rimanere stabili e bilanciare la grande differenza presente rispetto alle importazioni (e quindi contenendo i costi!), sottolineando come questi “accordi” internazionali superino di gran lunga il senso economico civile.

“La disponibilità di gas naturale ha visto una riduzione della produzione nazionale di gas naturale del 7,6% (raggiungendo il livello di 7,1 miliardi di metri cubi) ed un’importazione a circa 55,8 miliardi di metri cubi con una riduzione del 10% rispetto al 2013.”

Rapporto Ministero dello Sviluppo Economico – 2014

 

Perchè dunque continuare a credere a dati supposti? L’Italia rimane dipendente, anche per una sua scelta politica/economica ben precisa, dall’importazione di Gas e Petrolio, a prescindere dalla sua produzione nazionale, almeno fino a quando non si passerà definitivamente alle Rinnovabili, ma realmente, in modo da sopperire al fabbisogno nazionale annuo di energia prima.

L’occupazione è un altro aspetto che prendono in considerazione quelli che voteranno No: uno stop alle concessioni causerebbe la perdita di lavoro per tantissime persone, ma anche in questo caso i dati sono strampalati, in quanto comunque la disoccupazione non avverrebbe direttamente, ma con uno “spalmaggio” di circa 10/15 anni, tempo utile allo Stato per attivare servizi idonei alla situazione di smantellamento.

Il governo Renzi si è detto ostile al referendum, ed in una delle sue ultime dichiarazioni ha affermato:

“Non fatevi prendere in giro – esorta -, non è un referendum sulle nuove trivelle, che hanno già la linea più dura d’Europa. È un referendum – del tutto legittimo – per bloccare impianti che funzionano. Io lo considero uno spreco”. “Volete dire che dobbiamo dare un segnale?- chiede-. Non buttate via trecento milioni di euro per dare un segnale”.

Il riferimento ai 300 milioni è relativo alla spesa del referendum, che saranno «buttati via» comunque, che vinca il sì oppure no, non sembra un gran argomento e in effetti da parte del governo e dei suoi sostenitori non è ancora giunta la spiegazione del motivo per il quale i «fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» imporrebbero di vietare qualsiasi nuova attività, comprese quelle di ricerca, ma al contempo permetterebbero la permanenza degli impianti esistenti.

Petrolio e gas estratti entro le 12 miglia sono il 27% del totale del gas e il 9% del greggio estratti in Italia, che coprono circa il 3% del fabbisogno nazionale e rappresenterebbero lo «spreco» di cui parlano Renzi e molti altri.

Però è uno «spreco» anche vietare per sempre nuove ricerche e nuovi impianti, visto che in questo caso si definisce sopportabile o moderato il contributo inquinante di questi impianti, lo stesso che ha spinto a vietarne di nuovi, un ragionamento complesso e assurdo, che andrebbe chiuso vietando qualsiasi tipologia di estrazione entro le 12 miglia.

Inquinamento certificato e riconosciuto da dati ufficiali, che fa il paio con l’inquinamento prodotto bruciando quel gas, che anche essendo meno inquinante di petrolio e carbone resta una scelta energetica perdente, ancora di più considerando che nel 2013 un terzo dell’energia prodotta in Italia è stata generata bruciando gas naturale. Il necessario per arrivare al 64% dell’energia elettrica prodotta in Italia bruciando combustibili fossili, è stato prodotto da centrali a petrolio e carbone.

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I sostenitori del no peraltro focalizzano la loro azione sulle virtù «ecologiche» del gas e omettono di dire che anche il petrolio viene estratto da 7 piattaforme divise in 4 concessioni dislocate tra Adriatico centrale e nel Canale di Sicilia.

Secondo i sostenitori del no le piattaforme petrolifere, che in realtà in caso d’incidenti possono produrre veri disastri ecologici, spariscono dal discorso per il semplice fatto di essere di meno ed il referendum “s’accanisce quindi contro il gas buono”.

Per capire di cosa si parla bisogna ricordare che gli impianti termoelettrici sono il sistema energeticamente meno efficiente per produrre elettricità, funzionino a gas o con qualsiasi carburante. Poi può essere utile la visione dei dati proposti da Michele Mercuri, relativi al funzionamento di una centrale a gas, che spiegano come di ecologico nella pratica ci sia ben poco.

Nel 2013 ad es. la centrale di Simeri Crichi (CZ – Calabria) per produrre 2.426.322MWh di corrente elettrica ha consumato:
a) 17.133.000 metri cubi di acqua marina
b) 2.122 metri cubi di acqua potabile
c) 2,4 tonnellate di gasolio
d) 241,24 tonnellate di ipoclorito di sodio (lo usano per i depuratori)
e) 4,77 tonnellate di acido cloridico
f) 2,95 tonnellate di idrossido di sodio
g) 1,59 tonnellate di deossigenante
h) 0,89 tonnellate di disincrostante
i) 462.303.000 metri cubi di gas metano
k) 3,90 tonnellate di azoto tecnico

La stessa centrale ha immesso nell’atmosfera e nel mare in un anno (2013):
l) 320,27 tonnellate di ossidi di azoto
m) 279,02 tonnellate di monossido di carbonio
n) 9.907.444,42 tonnellate di Anidride carbonica
o) 15.467.000 metri cubi di acqua di scarico trattata (finita in mare).

I sostenitori del no però hanno già deciso che il gas è «pulito» e che sarebbe da sciocchi andarlo a comprare altrove quando ce l’abbiamo in casa; i «fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» sembrano del tutto irrilevanti o affrontati minimizzando l’impatto inquinante degli impianti e del gas, che per il solo fatto d’essere meno inquinante di petrolio e carbone all’improvviso diventa addirittura «ecologico».

Anche quando s’arriva ai conti e a ragionamenti di carattere economico e strategico, i sostenitori del no vanno in difficoltà.

Una persona esperta come Romano Prodi, ad esempio, ha affrontato il tema del referendum con confusione, affidandosi più all’istinto che a un approccio ragionato nel definire il quadro economico della disputa:

“E’ un tema importantissimo. Ci ho riflettuto bene e devo dire che mi sono sempre schierato sull’assoluta necessità di avere, ovviamente nella massima sicurezza, una produzione nazionale, come hanno tutti i Paesi. E’ assolutamente necessario anche attrarre gli investimenti esteri, come accade in tutte le nazioni del mondo, certamente, come detto, garantendo la massima sicurezza. E comunque – spiega il Professore – se non lo facciamo noi nello stesso mare lo fanno altri.

Prodi si è forse salvato in corner aggiungendo sul finale «sul caso specifico della consultazione referendaria, rifletterò bene quando torno in Italia» e ha fatto bene, non solo perché non si capisce che investimenti dovrebbero attrarre i giacimenti già esistenti o quelli che son stati vietati e lo resteranno, entro le 12 miglia.

Nessun «altro» poi potrà trivellare nell’area marina interessata o oltre le 12 miglia, dove gli impianti continueranno a operare come prima, rappresentando comunque una minaccia all’ambiente più diretta di quella rappresentata da impianti sulle sponde dell’Adriatico o del Mediterraneo opposte alle nostre, rendendo oltremodo specioso l’argomento secondo il quale è inutile che noi limitiamo l’inquinamento, perché ci sono già i nostri vicini che inquinano e che approfitterebbero. Arriveremmo primi noi comunque.

Non si capisce chi potrebbe venire a rubarci il nostro all’interno delle aree marine coperte dalla nostra sovranità e nemmeno come possa essere giudicata strategica una produzione nazionale che copre a stento il 3% del fabbisogno nazionale.

L’unica produzione locale implementabile a livelli significativi è quella d’energia rinnovabile, che peraltro a differenza dei giacimenti non si esaurisce e non produce emissioni inquinanti.

L’indipendenza energetica non arriverà mai dalle estrazioni di combustibili fossili dal nostro territorio, che siano in mare o in terra non possono scalfire minimamente una situazione che ci vede importare oltre il 90% del fabbisogno nazionale d’idrocarburi.

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È ovvio che vietando la presenza d’impianti d’estrazione in certe zone del paese si rinunci ai proventi che producono, ma se accade è perché si ritiene più importante l’oggetto da tutelare, l’ambiente costiero in questo caso, dei guadagni apparenti portati dalle estrazioni allo Stato.

Stato che è poi quello che comunque si fa carico di tutte le conseguenze di cui non si fan carico i petrolieri, da quelle ambientali a quelle sanitarie, che possono manifestarsi a lungo, anche una volta esaurito lo sfruttamento dei giacimenti.

Chi lamenta che la decisione DI VOTARE SI, che L’ASSOCIAZIONE FREEWEED INVITA A PRENDERE, non sia economicamente conveniente, dovrebbe fare i conti includendo tutta una serie di spese ed economie che per ora non ha messo insieme nessuno, limitandosi i più a considerare la chiusura come la perdita secca dei guadagni assicurati dalle piattaforme e rimuovendo ogni altra considerazione di carattere economico.

Per il resto ci si accapiglia sull’inquinamento prodotto dalle piattaforme attorno ai dati di una ricerca per l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) curiosamente sovrintesa e sponsorizzata dall’ENI nella doppia veste d’investigatore e principale indagato in quanto proprietaria della maggioranza degli impianti interessati, che ha  rilevato attorno a due piattaforme su tre la presenza di sostanze (molto) inquinanti e persistenti nella catena alimentare.

Per quelli secondo i quali QUESTO INQUINAMENTO non è rilevante: «I limiti presi a riferimento per le sostanze oggetto di monitoraggio e riportati nel rapporto di Greenpeace non sono limiti di legge applicabili alle attività offshore di produzione del gas metano. Valgono per corpi idrici superficiali (laghi, fiumi, acque di transizione, acque marine costiere distanti 1 miglio dalla costa) e in corpi idrici sotterranei.»

Che vuol dire cheLegambiente-votasi gli impianti inquinano, ma «poco». (quindi tranquilli! NDR)

Poco perché più si va al largo e più è consentito inquinare, tra l’altro, così quelle che sarebbero acque inquinate restano acque inquinate, ma entro i limiti di legge perché non si trovano entro un miglio dalla costa, ma entro le 12 miglia.

Acque tanto inquinate sono pericolose per farci una nuotata a riva se sei un uomo, ma non per viverci se sei un organismo marino o un pesce, che poi porterà quelle sostanze su per la catena alimentare fino alla nostre tavole.

 

Altro dato importante da tenere a mente, per andare a VOTARE SI al REFERENDUM DEL 17 APRILE, è che dal 2010 al 2014  il fabbisogno totale di gas naturale dell’Italia si è ridotto del 25,70%, con uno spettacolare -40% di consumo di gas nelle centrali termoelettriche italiane, un risultato che è figlio del calo dei consumi e dell’aumento della generazione di energia elettrica da fonti rinnovabili.

Risparmio energetico e rinnovabili hanno ridotto grandemente la nostra dipendenza dai combustibili fossili, che invece non può essere incisa significativamente dalle estrazioni. Invece in pochi anni abbiamo ridotto in maniera significativa l’uso di fonti fossili nella generazione d’energia e i numeri ci dicono che è come aver scoperto giacimenti molto più estesi di quelli ora presenti in tutto il territorio nazionale , giacimenti eterni d’energia pulita, non soltanto “meno sporca” di quella prodotta bruciando carbone e petrolio.

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Sapete perché vorrebbero mantenere la durata illimitata delle concessioni estrattive sotto costa, introdotta dal decreto Sblocca Italia, in realtà?

Perché dismettere un impianto comporta costi molto alti per le società concessionarie: meglio estrarre il minimo per il maggior tempo possibile.

Questo modus operandi, inoltre, ha anche un’ulteriore spiegazione economica: le franchigie.

Le società petrolifere, infatti, non pagano le royalties se estraggono meno di 20 mila tonnellate di petrolio a terra e meno di 50 mila tonnellate a mare. Ovviamente vendono, però, il petrolio senza alcun pensiero.

E se le soglie sono superate, scatta un’ulteriore detrazione di circa 40 euro a tonnellata.

Così il 7% delle royalties di legge viene pagato solo dopo le prime 50 mila tonnellate di greggio estratto e neppure per intero.

In Italia, inoltre, sono esentate dal pagamento le produzioni in regime di permesso di ricerca.

Ecco perché per chi estrae è fondamentale quella “durata di vita utile del giacimento“, indicata dal decreto Sblocca Italia.

Inoltre, se previste nel progetto originariamente approvato, le società concessionarie possono realizzare nuove trivelle a mare anche entro la fascia delle 12 miglia marine dalla costa, alla faccia del divieto stabilito dalla legge (art. 6, comma 17°, del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.) e alla faccia delle balle raccontate dalla propaganda astensionista filo-governativa.

Per un po’ di ambiente e un bel po’ di democrazia in più votiamo e facciamo votare SI’ al referendum del prossimo 17 aprile 2016.

 

CONCLUSIONI – PERCHE’ VOTARE SI AL REFERENDUM

Si tratta semplicemente di ritenere che gli stessi «fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» che impongono di non trivellare mai più entro le 12 miglia, valgano anche a impedire la permanenza degli impianti già operativi che, comunque vada il referendum, resteranno operativi fino alla scadenza delle concessioni o delle proroghe in corso di validità.

Votare sì al referendum vuol dire solo evitare che quegli impianti sotto costa restino attivi per altri decenni, non c’è nessun’altra conseguenza apprezzabile, tanto più che viviamo in un periodo storico nel quale l’eccesso d’offerta di combustibili fossili s’incrocia con l’inarrestabile aumento del ricorso a fonti rinnovabili e quindi con una contrazione strutturale e costante della domanda su scala globale.

Di gas e petrolio c’è e ci sarà abbondanza e non è vero che rinunceremo agli impianti sotto costa per sfruttare quelli presenti in altri paesi e quindi inquinare là.

Il gas lo prendiamo da Russia, Algeria e Libia, fiumi di gas attraversano l’Italia tramite i gasdotti diretti in Europa e non è gas estratto vicino alle coste, e non arriva con le navi metaniere; inutile quindi lamentare un aumento del traffico di navi che portano gas, se aumenteranno non sarà per soddisfare i nostri consumi o per compensare la perdita di quel po’ di gas e petrolio estratto entro le 12 miglia, l’import di combustibili fossili è comunque destinato inevitabilmente a calare nei prossimi anni.

E inutile è anche lamentare la perdita di occupati, negli ultimi 5 anni l’aumento della produzione di energie alternative ha creato decine di migliaia di posti di lavoro e altri ancora ne ha creati il settore dedicato al risparmio energetico; se sono quelli che stanno a cuore, s’investa in progetti energetici sensati e sostenibili.

E’ una scelta che responsabilizza il Governo: essere responsabili vuol dire che se esistono motivi che impongono un divieto delle attività estrattive entro le 12 miglia, questi valgono anche e a maggior ragione per imporre la chiusura degli impianti esistenti, che a differenza di quelli futuri minacciano l’ambiente e l’ecosistema qui e ora, alcuni da decenni.

Al Referendum del 17 Aprile inviteremo i cittadini a votare SI’, perché vogliamo che il nostro Paese prenda con decisione la strada che ci porterà fuori dalle vecchie fonti fossili, innovi il nostro sistema produttivo, combatta con coerenza l’inquinamento e la febbre del Pianeta.

 

ASSOCIAZIONE FREEWEED BOARD

 

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Il Comunicato Ufficiale “NOTRIV”

Il Comunicato Ufficiale “fermaletrivelle”

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