
Nelle ultime settimane, il dibattito riguardante i centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Italia è diventato sempre più acceso. Le preoccupazioni sulla loro efficacia, sulle violazioni dei diritti umani e sui costi crescenti stanno portando molte persone a chiedersi se questo sistema detentivo sia davvero la soluzione migliore per gestire l’immigrazione nel paese.
Il caso di J. M., un malato oncologico detenuto nel Cpr di via Corelli, a Milano, ha scosso l’opinione pubblica. Nonostante le sue condizioni di salute fossero estremamente gravi, è rimasto nel centro di detenzione per ventidue giorni. Solo grazie all’intervento di un ambulatorio specializzato, il Naga di Milano, è stato possibile ottenere per lui l’assistenza medica adeguata e la sua liberazione dal Cpr. Questo caso ha sollevato domande fondamentali sulla qualità delle cure e sulla giustizia all’interno di queste strutture.
Una relazione pubblicata dalla rete No ai Cpr e dal Naga, intitolata “Al di là di quella porta”, ha messo in luce diverse problematiche all’interno dei Cpr di Milano. Tra le criticità segnalate ci sono mancate visite mediche, uso eccessivo di psicofarmaci, assenza di servizi adeguati e strutture in stato di degrado. Questi dettagli inquietanti hanno alimentato il dibattito sulla reale efficacia e sulla necessità di questi centri.
Il ministro dell’interno Matteo Piantedosi, nonostante le critiche, ha confermato l’intenzione del governo di costruire nuovi Cpr, sostenendo che queste strutture aumentano i livelli di sicurezza nei territori circostanti. Tuttavia, un nuovo studio condotto da ActionAid e dal dipartimento di scienze politiche dell’università di Bari solleva dubbi sulla validità di questa affermazione.
Lo studio, intitolato “Trattenuti: Una Radiografia del Sistema Detentivo per Stranieri”, descrive il sistema dei Cpr come “inumano, costoso, inefficace e ingovernabile”. Secondo i ricercatori, la detenzione amministrativa degli stranieri non ha raggiunto risultati tangibili nel corso di quasi trent’anni. L’uso dei Cpr sembra concentrarsi principalmente sul rimpatrio accelerato dei cittadini tunisini, rappresentanti solo una piccola percentuale degli arrivi via mare nel periodo 2018-2023. Questo solleva dubbi sulla necessità di una rete così estesa di Cpr in tutta Italia.
Il rapporto mette anche in luce il ruolo dei gestori dei Cpr, principalmente cooperative e soggetti a scopo di lucro, inclusi alcuni colossi multinazionali. Questo ha creato una confusione amministrativa e una mancanza di trasparenza nel sistema. Inoltre, il costo medio di ciascuna struttura è di un milione e mezzo all’anno, con un costo per ogni posto di circa 21mila euro. Le spese di manutenzione straordinaria, dovute ai danneggiamenti delle strutture, rappresentano una parte significativa del budget, con costi che aumentano proporzionalmente alla permanenza media degli individui nei Cpr.
Questo studio evidenzia che l’investimento nei Cpr ha portato a un aumento significativo dei costi umani ed economici delle politiche di rimpatrio. Nonostante queste spese crescenti, i servizi all’interno dei Cpr sembrano diminuire, con tempi di assistenza legale e sociale estremamente limitati per ogni ospite.
In conclusione, mentre il governo italiano sembra insistere sull’espansione dei Cpr come una soluzione per gestire l’immigrazione, questo nuovo studio solleva interrogativi fondamentali sulla validità di questo approccio. L’efficacia, i costi elevati e le violazioni dei diritti umani all’interno di queste strutture pongono dubbi sulla loro reale utilità nel sistema di gestione dell’immigrazione in Italia. La discussione sul futuro dei Cpr in Italia è destinata a continuare, mentre il pubblico e gli esperti chiedono una revisione critica di questo sistema controverso.
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