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Sostanzialmente si confermano le linee guida delle scorse sentenze, lasciando davvero in difficoltà commercianti e l’intero settore; la sentenza n. 46236/2019 della Cassazione precisa che chi vende derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, commette reato meno che non si riesca a dimostrare che tali sostanze siano prive di efficacia drogante. I valori di tolleranza di THC fino a 0,6% indicati dall’art. 4, comma 5, I. n. 242 del 2016 si riferiscono solo al principio attivo presente sulle piante in coltivazione, non al prodotto oggetto di commercio. Da qui la necessità di procedere al sequestro dei prodotti commercializzati, per verificare se producono effetti psicogeni e se la vendita configura reato.

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Uno dei passaggi della sentenza recita testualmente: “la commercializzazione di cannabis sativa L e, in particolare, di foglie, di infiorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientri nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/ 53/CE del 13 giugno 2002, che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati.”

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Quindi il rischio è di incappare nelle maglie della famigerata 309/90 con una accusa di spaccio di stupefacenti, qualora venga dimostrata la soglia drogante, ancora poco chiara e sempre da dimostrare dopo un eventuale controllo.

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Si rimane dunque ancorati ad una non risoluzione del problema ma ad una sottolineatura della necessità, per tutti, forse finalmente, di ragionare su una modifica totale della 309/90, il testo unico sugli stupefacenti.

Di seguito la sentenza scaricabile:

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